Passiamo una notte sul lago sul lago Sevan, unico luogo di villeggiatura estiva in questo paese privo di accessi al mare. E' a 2000 metri, e' grande ed e' totalmente ghiacciato. Ci assicurano che d'estate qui si sta benissimo, ma poi aggiungono che ci si puo' fare il bagno solo nei primi 15 giorni di agosto: prima e dopo l'acqua e' troppo fredda.
La primavera e' arrivata con 2 settimane di anticipo, sciogliendo cosi' la neve che ricopriva i villaggi. Chiediamo a dei locali se sono contenti e loro sorridono maliziosamente indicandoci il mare di rifiuti e buste di plastica che ricopre le piazze ed i campi e che fino a pochi giorni fa era nascosto da un immacolato manto nevoso. E' il momento giusto per dire "tsaven danam", la piu' comune espressione armenia, usata nelle situazioni piu' disparate. Vuol dire : "mi faccio carico del tuo dolore", ma la senti usare da chi risponde al telefono come dal tassista a cui hai appena detto che ti ha chiesto troppi soldi.
Sull'autobus incontriamo Jason, un trentenne americano volontario dei Peace-Corps. E' una ONG presente in quasi tutti i paesi poveri. Lui, come gli altri 20 volontari presenti qui, passera' 2 anni e mezzo in armenia, in un villaggio di 10000 anime creato dai sovietici e poi abbandonato a se stesso: delle undici fabbriche di un tempo adesso ne funzionano solo tre a giorni alterni. L'unico lavoro per chi decide di restare vicino alla propria famiglia e' il tassita.
La maggior parte dei volontari insegna l'inglese. Sono diversi tra loro, di eta' diverse e di stati diversi; hanno una sola cosa in comune: avevano tutti scelto come destinazione l'Africa e sono tutti finiti qui, in un freddo che si sopporta solo con fiumi di vodka.
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